I volti di Cristo sotto un UnicoSole. Diario del viaggio in Madagascar dal 12 gennaio al 1° febbraio 2017, di Maria Concetta Fanesi

“Maria, Sandra e Ugo vanno in Madagascar, andiamo anche noi?” “Va bene”.

Un si immediato, senza riflettere, quelle cose scelte prima di pensarle, una decisione piovuta dal cielo.

C’è un’unica strada che percorre il Madagascar da nord a sud, questa è la via di tanti fratelli, è la strada di Dio e i volti di Cristo in ogni fratello malgascio che la abita.

 12 gennaio giovedì

Ore 6,20 partenza per Parigi, arrivo a Parigi alle 10, ripartenza alle ore 11,45 per Antananarivo . Arrivo ad Antananarivo alle ore 23,30 locali. Aeroporto: dal freddo al caldo; gente, tanta gente alle 11 di sera, tanti sorrisi. A chi?  A me?

Dovevamo pagare la tassa-passaporto di 27 euro, ma la scheda non si trovava perché avevano finito le copie, una fila interminabile … ma loro, i malgasci tranquilli, “mora mora”, piano piano …e parlavano, ridevano tra loro sereni. Due di loro si sono offerti per compilare ben 8 schede (2 per ciascuno di noi) che alla fine erano arrivate. Parlavano di soldi e io, tra me e me, ho pensato “anche qui fanno tutto per guadagno”, portandomi dietro i miei pregiudizi di europea ma non era vero, ci indicavano il bureau dove dovevamo pagare la tassa-passaporto e ci hanno gentilmente accompagnato.

Poi via a prendere le valigie, il sudore mi colava dalla fronte, mi sono tolta la giacca a vento, sì era proprio caldo, l’attesa è stata lunga. Dopo un po’, Silverio mi dice di aver sentito un responsabile dei bagagli pronunciare il cognome “Socci?”. In poche parole abbiamo capito che una delle nostre valigie non era partita da Parigi, sarebbe arrivata il sabato successivo alla stessa ora.

Silverio è stato bravissimo, era la sua valigia, se fosse stata la mia mi sarei agitata tantissimo (come sono attaccata alle cose) ma ben presto ho imparato la prima lezione da Haja, il nostro autista malgascio che ci aspettava fuori, col suo fare sorridente e sereno mi ha fatto capire che la valigia non era un bene così prezioso da dover togliermi la serenità, comunque avrebbe fatto di tutto per consegnarcela anche dopo una settimana.

Avviandoci verso la macchina, siamo stati circondati da 5 -10-15-20 ragazzi che volevano aiutarci a portare le valigie (un ragazzo mi ha chiesto una bambola per la sua bambina). Io con un bel mal di testa, per schivare tutta quella masnada di gente sono salita sul fuoristrada tenendomi stretta la borsa e lo zaino per paura di quei, secondo me, malintenzionati, ma Haja, con calma, mi toglie lo zaino e lo sistema dietro per farmi stare più comoda e mi fa capire che non devo avere timore, si tratta di persone molto molto povere. (Oggi 25 gennaio ho capito quanta onestà e rispetto c’è in questo popolo, valori che noi abbiamo perso).

Chiedevano qualcosa e Silverio, Sandra e Ugo sono stati molto bravi e solleciti, mentre io mi sono barricata. Era notte, per le strade tanti cani, baracche, polvere, terra, buio, un odore di legna bruciata. Arriviamo all’albergo povero ma pulito, i pezzi dei sanitari rimediati e incollati. Uno sguardo..Silverio e io ci sentiamo ancora più uniti in questa nuova avventura, in questo mondo così diverso tutto da scoprire insieme e ci addormentiamo tranquilli.

Al mattino un raggio di luce..poi voci, schiamazzi, movimento, sono le 4 e tutta la città è sveglia, ci si alza presto, mi affaccio e vedo passare carretti carichi di sacchi di carbone portati a traino da ragazzi e spinti dietro da altri ragazzi, donne con ceste sulla testa in perfetto equilibrio, pulmini carichi di gente, animali, piante, mercanzie e bimbi che al volo si attaccavano alla maniglia posteriore. Insomma una vera città fatta di stracci, ruote e tanti bambini, mai vista tanta gente giovane tutta in una volta.

13 gennaio venerdì

“Andiamo!!! Il Madagascar ci aspetta. Haja ci ha raggiunti e abbiamo cambiato gli euro in ariari (la moneta locale): 1 € = 3.500 ariari, insomma 7.900 € = 27.650.000 ariari; tutti quei soldi hanno preso posto in tre zaini.

Partenza per Ambositra. Un’unica strada, ma quanta gente! Sbucano da tutte le parti.

Si vende di tutto, ognuno quello che la natura gli dona: dal sasso all’ananas, bancarelle fatiscenti con borse di raffia, corde, legna da ardere, anche il lavoro si svolge qui. C’è chi fa i mattoni, chi spacca le pietre e i bambini le sminuzzano, carretti pieni di sacchi di carbonella coperti con foglie di manioca spinti e tirati da ragazzi, poi tanti bimbi e bimbe che portano i fratellini sulla schiena e fanno chilometri e chilometri, un mondo nuovo, diverso. Frotte di giovani ma che meraviglia. Haja ci ha detto che il Madagascar ha la superficie doppia dell’Italia, 30 anni fa la popolazione era di 8 milioni oggi sono 24 milioni, il 50% giovani sotto i 18 anni.

Camminano tutti passo dopo passo per chilometri, insieme, quando passi ti salutano e ti sorridono come ti conoscessero da sempre “salama” che vuol dire “buongiorno”, “veloma” che vuol dire “arrivederci” un popolo in cammino; pochissime auto, poche biciclette, tanti carrettini fatiscenti. Questo popolo sopravvive con le risorse della terra. Una volta il paese era tutto una foresta ora non più. Tagliano gli alberi, soprattutto eucalipti, li bruciano per ricavare carbone da vendere per cucinare, cosa? Manioca, una radice come la patata ma più dura.

E’ la stagione della frutta e si vendono banane, carote, cetrioli, litchi, papaia, mango, pomodori; quanti colori. Non è la strada delle auto o dei tir, è quella degli uomini o gli uomini della strada perché è la vita che si svolge qui. Incontriamo mandrie di zebù guidate da pastori con un sacco sulle spalle dove tengono un legnetto e un pezzo di manioca perché il mercato da raggiungere è lontano e ci si ferma a mangiare e a dormire sotto le stelle.

Ci fermiamo davanti a delle capanne di paglia dove vendono borse di raffia, cappelli variopinti ed altro. Dopo aver fatto acquisti proseguiamo. Da Antananarivo ad Ambositra sono 250 km, percorsi in 7 ore. Ci fermiamo e vedo due bimbe che vengono verso di noi con un piatto pieno di uova da vendere, sono titubanti. I “vasa”, gli uomini bianchi, li vedono di rado, forse mai. Mi avvicino, do delle caramelle, poi vedo che la bimba ha la corona del rosario al collo, allora tocco il rosario e faccio il segno di croce..risposta?  Un grande sorriso, non più estranea ma dalla sua parte.

Risaliamo in macchina..che colori, la terra è di un rosso fuoco per questo è chiamata “ l’isola rossa”, il verde di mille gradazioni spicca su un cielo che sa di paradiso; alberi dall’alto fusto mai visti prima. Milioni di anni fa quest’isola era attaccata all’Africa e, staccandosi, ha conservato animali e piante che si trovano solo qui. Ci fermiamo, ci vendono miele di litchi, marmellate di prugne e albicocche. Il miele in bottiglie di plastica, qui non si spreca niente, questo popolo misero è ingegnoso e sa inventarsi: con liane intrecciate fanno corde, sottopentole, scope, scopette, lemuri in miniatura da vendere a chi passa, tutti aspettano e sono pronti a venderti qualcosa, anche un sasso. Ma chi compra? Vivono così aspettando “mora mora” la provvidenza, ma ci mettono del loro, sono poverissimi, sopravvivono con quello che trovano.

Arrivati ad Ambositra il fuoristrada non va; “mora mora” dice Haja. Senza perdere la pazienza scarica tutti i bagagli, tutti lo aiutano, tutti ci salutano. Ceniamo alla luce fioca della candela, fuori il cielo stellato e una grande pace mi invade, la natura si riposa, io chiudo gli occhi e rivedo tutto popolo in cammino…quanti giovani, quanti bambini scalzi sporchi.. mi addormento con i loro sorrisi.

14 gennaio sabato.

 Apro gli occhi..dove sono? È un sogno? Mi affaccio alla finestra, non è un sogno, c’è posteggiata la nostra Toyota carica di bagagli 2 valigie a testa di 23 kg ognuna e un bagaglio a mano di 12 kg e uno zaino a testa. Abbiamo di tutto: caramelle, profumi, saponette, bagni schiuma, vestiti per bimbi, uomini e donne, tutto da dare, tutto da distribuire ma non sapevamo a chi, ora lo sappiamo;  a chiunque incontreremo perché tutti ti sorridono ma non tendono la mano perché sono dignitosi nella loro povertà; appena accenni un minimo gesto si coinvolgono subito perché sono immediati, si mettono in posa per una foto e ridono, ridono chiudendo la bocca con il palmo della mano per non far vedere le tante finestrine (qui si va dal dentista solo per togliere i denti non per curare.  I dottori ti curano unicamente basandosi sui sintomi; non ci sono laboratori analisi e nemmeno ospedali).

“Presto si parte”, saliamo ma, ahimè, l’auto non va. Haja non da segni di preoccupazione che persona, affronta tutto “mora mora” piano piano: “escusa, escusa, voi andare al negozio del legno, io intanto riparare macchina”. Ci rassicura con quel tono così scanzonato, quel suo modo di parlare piano piano in modo raffinato (certo noi siamo molto più grossolani), ci guardiamo e ci

avviamo al negozio. Mi fermo.. una mamma tiene in braccio un bimbo e si avvicina, io le faccio segno di volerlo prendere in braccio e lei sembra un po’ reticente ma, il sentimento di accoglienza nei miei confronti, supera ogni paura, mi trovo tra le braccia quel culetto bagnato senza mutandine che bello…mi sento parte.

Al negozio oggetti di legno, presepi, croci, suppellettili, Ambositra è la città del legno. Abbiamo fatto acquisti, una croce con due mani unite: una bianca e una nera, è proprio sinonimo di questo viaggio con l’associazione “Unicosole” unica mano, unico Padre nostro, siamo tutti sotto lo stesso cielo. Finalmente la Toyota Land Cruiser 2088FE bianca è pronta e saliamo. Non abbiamo perso tempo.. non abbiamo sbuffato sotto il sole cocente, non ci siamo sentiti allo sbaraglio..ci siamo fidati, questa gente ci contagia, stanno lì seduti per la strada con niente da vendere in attesa..di chi? ma ti salutano per primi e ti sorridono.

La strada è lunga, buche su buche, un asfalto ibrido e un caldo caldo..ma è caldo anche il mio cuore.

Ripenso a casa, ai miei figli e nipoti, un altro mondo.. come sarei felice di catapultarli in questo nuovo mondo più vero, più umano, più semplice, più naturale, una vita di sopravvivenza ma di fratellanza, di silenzi,di rispetto della natura, di timore di parlare per non rovinare un tramonto o un cinguettio di cicale, una natura vergine, una terra rossa come la gente che ora guardo ai lati della strada tutt’uno con la pietra che stanno spaccando per ricavarne mattoni da vendere, o terra rossa presa a pezzi per costruire capanne con tetti di paglia. La loro casa: un buco con una stuoia per appoggiare la testa durante la notte per questo popolo giovane in cammino. Fanno i mattoni con piccole forme di legno, li accatastano lasciando in mezzo un camino, accendono il fuoco per cuocerli, poi li vendono, tutto è fatto a mano, senza misura, anche i gradini delle scale, tutti diversi. Arriviamo a Fianarantsoa, ci sistemiamo in albergo perché nella casa famiglia, dove andremo nel pomeriggio, ci sono solo camerate per i ragazzi e manca acqua e luce.

Po..poo.. suoniamo il clacson, si apre un grande cancello rosso e.. 55 ragazzi e ragazze ci accolgono.. è sabato e non c’è scuola. La casa ha 3 piani: piano terra con il refettorio, la camera di P. Giangi, 2 stanze per studiare dopo la scuola e i bagni; primo piano camere delle ragazze e bagni; secondo piano camere dei ragazzi e cappellina.

Qui ancora si può fare convivenza, le ragazze molto semplici e modeste stanno pulendo il riso dalla pula su grandi ciotole di alluminio mentre i ragazzi giocano con un pallone fatto di stracci..ma tutti si fermano per noi: “salama,salama” “buon giorno” e uno a uno ci salutano dandoci la mano e 3 baci sulla guancia con gli occhi timidi abbassati . Per rompere il ghiaccio mi metto a cantare alleluia con le mosse e… è fatta.  Io? Tu? Malgascio? Vasa? No…NOI ALLELUIA, e via, canti, girotondi, ban grazie ai miei figli e Arianna che me li hanno insegnati. Giovani con giovani, ci sentiamo accolti.

15 gennaio

Ci alziamo alla buonora dopo una bella dormita su un letto con baldacchino bianco, camera d’albergo che s’affaccia su un cortile interno con svariate piante autoctone, un odore acre di legna bruciata ti entra in gola. Certo cucinano solo con legna e dappertutto c’è questo fumo che ti toglie il respiro, per il resto tutto pittoresco e fiabesco.

Dopo una lauta colazione con marmellata di poc poc, ananas, banane, tè e pane, alle 7,15 partiamo da Fianarantsoa, attraversiamo campi e vallate verdi, risaie, risaie su terrazze e gente che pianta il riso, lo raccoglie, trasporta grandi fasci sulla testa e lo batte su pietre ai lati della strada per ricavare chicchi che poi andranno battuti a mano su mortai per liberarli dalla pula.

Più si va verso sud più il paesaggio è stepposo e le risaie sono secche, qui manca l’acqua, è tanto tempo che non piove pur essendo questa la stagione delle piogge; la raccolta è poca, alcuni cercano almeno di riempire una “kapoka” di riso per sopravvivere. Zebù che lavorano la terra calpestandola con gli zoccoli e persone che li tirano in mezzo al fango, alla melma. Rivoli d’acqua dove le donne lavano i panni e li mettono ad asciugare al sole trasformando i prati in arcobaleni variopinti mentre i bambini fanno il bagno. Incontriamo bambini che giocano per strada con una ruota di bicicletta tutti smoccolati, scalzi, stracciati ma con il sorriso stampato sulle labbra. Arriviamo verso le 11,30 a Ivandrika due capannoni in aperta campagna, scendiamo e ci viene incontro Padre Giovanni Luigi Colombi. Me lo immaginavo proprio così. “Cari amici, benvenuti in Madagascar, venite, venite, abbiamo appena celebrato la Messa e questi operai vogliono salutarvi”. Capannone grigio, di cemento, in terra una grande stuoia e, seduti attorno, famiglie intere, giovani con bimbi tra le braccia e noi al posto d’onore sulle seggiole. Ognuno di loro si è presentato e ci ha dato il benvenuto.  Gli sguardi tutti su di noi, sguardi buoni, accoglienti:

“siamo contenti che siete qui, siete venuti con il grande uccello di ferro che non è caduto, siete venuti da lontano a trovare noi… voi i vasa”, poi si sono messi a cantare. Dopo il saluto ci hanno offerto il pranzo: riso, zebù, foglie di manioca lessate, papaia per frutta. Abbiamo poi visitato le risaie che padre Giangi ha realizzato sfruttando un torrentello costruendo canali per irrigarle. Abbiamo quindi raggiunto il grande bacino d’acqua e la diga fatta costruire nel 2015 sfruttando un tipo di terreno roccioso impermeabile per poter raccogliere l’acqua per i raccolti e per gli zebù. La prima diga fatta di terra e pietre crollò, tanto che gli operai erano sfiduciati, ma la seconda, di cemento e ferro, è lì. E’ stata per me una grande emozione camminarci sopra come da bambina quando giocavo a stare in equilibrio sul marciapiede, ma la diga era tanto lunga, di qua acqua e di là cemento e ad un tratto ho chiesto l’appoggio per non perdere l’equilibrio mentre dei bambini che facevano il bagno su una pozza d’acqua lì accanto, mi guardavano e ridevano.

Poi partenza per la casa base a Ioshy: la Fifaliana che significa “letizia”. Una cucinetta, la camera di padre Giangi, la camera da letto per Sandra e Ugo e la sala da pranzo che di sera verrà trasformata in camera da letto per me e Silverio. Un piccolo appartamento dove vive una famigliola Lidia 27 anni, Roland il marito e Fleria di 8 mesi. Al mattino sveglia alle 4, alle 5 tutti al lavoro all’allevamento di galline ovaiole voluto da padre Giangi per dar lavoro a questa gente nella loro terra. L’allevamento impegna 35 operai, una parte del ricavato va a sostegno della casa famiglia di Finarantsoa. Roland con la sua bicicletta si carica tutte le mattine 1000 uova e va a venderle fino a sera. Lidia lavora al pollaio e porta con sé la bimba. Appena ritorna, alle 17,30 del pomeriggio, accende il fuoco lì di fuori e cucina manioca, riso e foglie di manioca. Mi tratta come mi conoscesse da sempre e cerca di insegnarmi qualche parola in malgascio. Nel pomeriggio facciamo visita al carcere di Ioshy; una esperienza cruda. Ci sono 250 carcerati di cui 20 donne, 40 già condannati, gli altri in attesa di giudizio, che forse non arriverà mai. Dopo aver ricevuto i dovuti lasciapassare verbali per entrare, abbiamo sentito il grido di una guardia e ci è stato aperto un cancelletto, richiuso alle nostre spalle. Ci siamo trovati 350 persone tutte sedute davanti a noi che ci battevano le mani. Non so cosa sia passato nella loro mente ma il mio cuore era gonfio. Su terra rossa, polvere rossa, baracche nere di fumo, uomini con maglie strappate, scalzi, sporchi, ma sorridenti, molti con il rosario al collo pronti per la Messa.

Padre Giangi ha celebrato il sacrificio di Gesù che condivide la realtà di questo carcere e di tanti uomini innocenti che vi si trovano. Il più anziano, catechista del carcere, ha preso la chitarra e ben 3 cori di carcerati hanno dato gloria a Dio e chiesto perdono per le loro colpe durante la preghiera dei fedeli. Intanto un odore forte di fumo e un’aria dolce mielata e fetida saliva dal centro del cortile dove sotto una tettoia sembrava ci fossero dei fuochi, ci siamo avvicinati perché i carcerati stessi avevano piacere di farci vedere le loro condizioni di vita e, sopra due altissimi scalini di pietra nera bolliva un pentolone di ferro incrostato con dentro radici di manioca marce che si cuocevano su un’acqua marrone. Impressionante, mai visto, peggio di un trogolo di porci. A un battito di verga sul coperchio tutti in fila con la scodella in mano per prendere l’unico pasto del giorno. Alle 17 tutti dentro fino alle 7 del giorno dopo. Dentro dove? E come? Ci sono 3 locali bui pieni di schizzi di sangue nelle pareti (per le zecche che li tormentano durante la notte), poi questi poveri uomini ci hanno fatto vedere come dormono. Su una stanza dove dovrebbero dormire in 20 dormono 98 persone. Considerato il sovrannumero non c’è posto per sdraiarsi orizzontalmente, così dormono sul fianco, alternati testa e piedi; ogni tanto, a comando, si devono girare tutti dall’altra parte. Così per tutta la notte e per tutte le notti. Inaudito, fuori di ogni misura umana. Allibiti guardavamo questa realtà, realtà mai pensata. Davanti alla camerata un bidone tutto rotto per fare i bisogni, praticamente questi uomini vivono, calpestano e respirano la loro merda. In una stanza a parte sono reclusi 12 ragazzi sotto i 16 anni. Padre Giangi ha chiesto loro che cosa avessero fatto per meritare il carcere. “Io ho ucciso”, hanno detto 2 ragazzi “perché stavo litigando”, impressionante. Gli altri, la maggior parte avevano rubato uno zebù e uno di loro una bicicletta. Poi siamo andati nel settore delle donne e gettando uno sguardo nel cortile abbiamo visto un carcerato che aiutava un compagno a togliersi i pidocchi dalla testa, lì tutti si grattavano, si grattavano, tutti si avvicinavano a noi e volevano una foto e si volevano rivedere nel cellulare, erano felici della nostra visita.  Una donna ci ha detto: è morto mio marito e mi hanno incolpata ingiustamente; un’altra era accusata di aver lasciato aperto il cancello per far entrare i ladri di zebù, comunque tutte si sono dichiarate innocenti. Ci hanno fatto vedere il loro catino bucato per lavare i panni e hanno chiesto il sapone e delle scope oltre a un catino nuovo. La visita era terminata ma nel mio cuore e nei miei occhi quei volti rimarranno per sempre. Siamo ritornati al carcere altre due volte.

16 gennaio lunedì. Ihosy casa base.

Abbiamo visitato l’allevamento di galline ovaiole. Ci sono dei capannoni di cui uno a tre piani, gli altri a piano terra, si leggono targhe di donazione per la loro costruzione. In una c’è scritto: “Affinché i ragazzi del Madagascar possano avere un futuro migliore”. C’è un pozzo scavato a 30 metri di profondità che prende acqua da una vena e sulle pareti c’è una targa con Gesù Misericordioso che riporta questa scritta: “Gesù è sorgente di acqua viva per la vita eterna, chi viene a me non avrà più sete”. Anche qui tanti bambini e tante famiglie, è la più grande impresa di Ihosy. Faccio la foto a due bimbe intente a battere con un pesante tronco il riso posto in una ciotola di pietra per togliere la pula, un lavoro faticoso ma qui lavorano tutti anche i bambini che non mi hanno risparmiato il loro sorriso. Nel pomeriggio Sandra e io abbiano scartavetrato la porta del bagno e due finestre e dato l’impregnante.

 17 gennaio martedì.

Silverio e Ugo hanno attaccato i quadri nella stanza da pranzo con le foto dei 35 anni di padre Giangi in Madagascar, io sono tornata, per la seconda volta, al carcere con padre Giangi e Sandra e abbiamo portato 10 contenitori per i bisogni fisiologici numerati con un pennarello bianco e con coperchio, saggina per fare le scope così passano un po’ di tempo per costruirle, 1 kapoka di riso a testa, quindi 350 kapoke alcuni non avevano niente per mettere la loro porzione di riso allora hanno allungato il cappello.

Abbiamo portato delle papaie per gli ammalati ed un pallone. Alle ore 17 abbiamo assistito alla loro entrata nelle camerate, tutti in fila con le braccia appoggiate sulle spalle di quello davanti e, ad un ritmo malgascio tutti dentro chiusi a chiave.

Alla sera abbiamo avuto a cena Renè, sua moglie Claire e Gian Paul. Renè ha 43 anni ed è il responsabile dell’allevamento di galline ed è stato il primo operaio di P. Giangi; sua moglie tiene la contabilità e paga gli stipendi agli operai ogni settimana.

18 gennaio mercoledì.

 Siamo andati a Marafivango dove è in fase di costruzione un capannone aperto con tettoia per riporre il raccolto.

Campi sterminati, cielo azzurro, l’orizzonte lontano, poi  nuvole scure che contrastano col verde intenso dei prati e delle coltivazioni di noccioline tonde e normali, mais, manioca. Cammino in mezzo a queste piantagioni su una terra rossa in piena libertà, assaporando i profumi della natura e le distese interminabili, una calda pace mi invade l’anima, corro incontro a due donne che vedo laggiù una con un bimbo in braccio ed uno grandicello, voglio conoscerle… muovo i primi passi e anche loro mi vengono incontro…un saluto e poi mi seguono, mi seguono perché il cielo si fa più scuro e minaccia la pioggia.  Arriviamo al capannone e vediamo che Ugo e  Silverio hanno appena finito di aggiustare il tubo che porterà l’acqua in una grande vasca nel recinto degli zebù. Nel muro leggo la targa ”Dio disse: “Ecco io vi do ogni erba che produce seme e che è sulla terra, e ogni albero che da frutto, che produce seme: saranno il vostro cibo”. Questo capannone è stato realizzato il 12/01/2015. Gli operai ci guardano, io accenno un “alleluia” e subito rispondono, amicizia è fatta, uno di loro prende una chitarra fatiscente e tutti cantano in coro e ballano, è un vero spettacolo; come sono semplici e veri, esprimono gioia anche se il lavoro di braccia è duro, la terra, gli zebù.

I bimbi giocano sopra a un carretto e noi ci mettiamo a giocare con loro in cerchio: la danza del serpente, dudu bau, se sei felice….. la loro allegria ci contagia….è festa per tutti, festa di niente ma di tutto, di semplice calore umano tra fratelli figli di un solo Padre sotto un “Unicosole”.

Ripartiti, siamo andati a trovare Giuseppe, un misero che vive in una capanna di terra col tetto di paglia in mezzo ad una steppa cercando di coltivare riso, mais e manioca. (Prima di Natale si era presentato a padre Giangi e gli ha aveva chiesto uno spazio per costruire una capanna per far partorire la moglie in attesa dell’ottavo figlio). Ci ha fatto vedere il giaciglio costruito da lui e ci ha presentato tutta la famiglia che vive racimolando tutto quello che la natura offre: porcospini, ochette selvatiche, quaglie e altri animali selvatici. Mi riprometto di portargli qualcosa.

19 gennaio giovedì.

Parco Isalo. Percorriamo una lunga strada. La guida, dopo aver voluto gli ariari pattuiti, sparisce e noi un po’ innervositi ad aspettare; ma Haja “no tutto va bene Maria, va bene mora mora”. Haja con la sua calma ci educa…e ci tranquillizza. Il parco è meraviglioso, pieno di cascate, sentieri, liane, palme, alberi mai visti, paesaggio paradisiaco, rocce lisce e acqua di sorgente trasparente dove gli alberi si specchiano e il martin pescatore azzurro fa capolino e fugge per non farsi fotografare perché noi abbiamo invaso il suo habitat.

Occorre un grande rispetto e questo popolo lo possiede, rispetto per la natura che dà loro da mangiare, per gli animali, per gli uomini, ci si ascolta per ore e ore, si dialoga, ci si confronta, si dedica il tempo gli uni agli altri, stile di vita da recuperare nelle nostre case, rispetto per tutto. Sono timidi, riservati, schivi, semplici, parlano piano per non disturbare, sono un tutt’uno con il silenzio della natura nella quale sono immersi. Piccole cascatelle luminose saltano su pietre e si raccolgono in acque trasparenti che lasciano intravedere i multiformi colori delle rocce e della terra, bellissimo.

20 gennaio venerdì. Visita a Sakalalina altro terreno di padre Giangi.

Piantagioni di riso, dura coltivazione dei campi secchi, senza acqua, allevamento di galline di proprietà di Renè. Gli operai, tutti ragazzi giovani, raccolgono con le mani il letame delle galline e degli zebù e lo stendono nella terra per dare un po’ di fertilità ai campi che hanno sete d’acqua, piantagioni di banane. Bisogna sapere che il banano ce la mette tutta per partorire un casco di banane, ci mette tutta la sua energia e vitalità, poi muore e attorno spuntano i figli e il ciclo continua. Leggo nel muro la targa della donazione dove è scritto. “Insieme a tutte le creature, cantando camminiamo su questa terra cercando Dio. Le nostre lotte e preoccupazioni per il cibo quotidiano donatoci dalla nostra terra, ravvivano la gioia della speranza. Alla fine ci incontreremo faccia a faccia con l’infinita bellezza di Dio” (29/01/2015). Lasciamo Sakalalina e prendiamo la strada per andare a trovare padre Maurice che ha creato una scuola agricola in una zona sperduta. Per la strada ci imbattiamo su un gruppo di ragazzi in corsa che portano sulle spalle una bara per raggiungere la tomba di famiglia in un villaggio lontano. Quanta polvere abbiamo mangiato percorrendo strade sterrate, dissestate. Ci fermiamo più avanti a vedere il lavoro di uomini che scavano la terra in profondità per cercare la Tormalina. Fanno dei pozzi mettendo nella circonferenza scavata rami piegati a forma di cerchio tutto attorno all’interno del foro dall’alto in basso.  Con argano improvvisato fatto con dei legni, calano una corda con attaccato un sacco di tela e, all’improvviso l’ometto sepolto dentro al pozzo viene fuori sorridendo preceduto dal sacco pieno di melma, fango, pietre, è tutt’uno con la terra ma sorride e Padre Giangi ci spiega che la tormalina è una pietra azzurrina che a loro viene pagata una miseria ma poi viene venduta sui mercati internazionali. Il Madagascar è una terra ricca di pietre: marine, topazi, oro, pietre dure, ma il popolo viene sfruttato dalle multinazionali, questo è un grave problema.

Arriviamo da padre Maurice, un prete malgascio che tenta di far aprire gli occhi ai giovani che vivono in aperta campagna e seguono la cultura malgascia di seguire lo zebù dalla mattina alla sera e non fare altro se non procurarsi il cibo per sopravvivere. Lui insegna a coltivare le piante, il mais, ma poiché c’è siccità non si vedono i frutti e i ragazzi si stancano e pochi lo seguono. Dedica la sua vita a loro e ci ha detto che vuole che questi giovani vengano fuori con idee nuove. A questo scopo manda uno di loro ad un corso per veterinario, in modo che possa curare gli zebù malati. Padre Maurice ci ha offerto un buon pranzetto a base di riso e pollo cotto alla brace e papaia. Mentre mangiavamo le gallinelle entravano e uscivano e ci facevano compagnia con i loro co.co.co, poi si è presentata una signora, non sappiamo da dove sbucata in mezzo a quella steppa, che vendeva pesce di risaia, noi lo abbiamo comperato e lasciato a Maurice. Nel viaggio di ritorno P. Giangi ci ha detto che questo popolo è stato sempre dominato, prima dai francesi colonizzatori, ora sfruttato dai cinesi che acquistano gli zebù a prezzi ridicoli, costruiscono grandi recinti, li uccidono, congelano la carne e la spediscono in Cina.  Che roba!!! Ci ha poi raccontato delle difficoltà per far uscire dal paese un malgascio. Per far venire Haja e Renè in Italia alcuni anni fa, ha dovuto inviare al governo una lettera di invito, poi firmare una fidejussione a garanzia del loro ritorno sia vivi che morti. E’ una cosa assurda!!!  Qui nessuno ha il passaporto, la maggior parte non è neanche segnata all’anagrafe, molti non sanno la loro età precisa, la maggior parte è analfabeta.

La maggior parte dei bambini non va a scuola vive alla giornata, cercando cibo per la famiglia. Piantano la manioca la raccolgono, la mangiano e la vendono. Le famiglie sono molto unite e tutti lavorano, la famiglia è allargata, gli zii sono papà e le zie mamme e lavorano tutti insieme; c’è molto senso comunitario della vita. Si parla, si dialoga per ore e ore serenamente (cosa che da noi si è perduta); dedicano il tempo ad ascoltarsi. Che cosa bella ho riscoperto in questa gente!

21 gennaio sabato.

Partenza per Ivandrona, il villaggio del padre di Haja. Percorriamo strade sterrate non con buche ma con solchi enormi e terra rossa, di un rosso fuoco e gente ai lati delle strade, strade vive, strade di vita o vita sulla strada. Vedo uomini con un bastone sulla spalla e dietro, come bisaccia, un fardello di carne di zebù macellato da portare a casa o comperato o preso dalla festa di un funerale perché ad ogni funerale si ammazza uno zebù e tutto il parentado va a mangiare e mangia per giorni e giorni finché non è finita la scorta di carne. Si aspetta un funerale per poter mangiare un po’ di carne, anziché solo manioca o riso. Più avanti ci fermiamo ad un villaggio di capanne di terra rossa e tetti di paglia, i bimbi sono sempre lì che ci seguono un po’ intimoriti ma curiosi, bimbi a frotte che sbucano da tutte le parti e di tutte le età. I “vasa” gli uomini bianchi, subito tiro fuori le caramelle e le porgo, con una manina sopra l’altra, scalzi, smoccolati, stracciati; ti sorridono, è commozione. Mi affaccio dentro a una casa di pietra rossa, le pareti all’interno sono nere, per tetto c’è il cielo perché la paglia è caduta, un cane magrissimo è sdraiato sulle scale di pietra portate a mano, frutto di sudore. Qui nella immensa povertà c’è un connubio profondo tra natura, animali e uomini. Riprendo una gallina che becca il fieno degli zebù, tutto è genuino. “Salama, salama” saluta padre Giangi. Gli anziani si avvicinano e ci accompagnano ad un bacino vuoto, senza acqua, costruito dal padre Giangi 3 anni fa. La sorgente è su una collina lontana e non l’abbiamo raggiunta, l’acquedotto che forniva l’acqua a fontane di diversi villaggi è prosciugato. Riprendiamo la strada, tanta gente, tanta vita in fermento, in cammino, vita laboriosa. Ci fermiamo a vedere la battitura a mano del riso e famiglie intere bimbi e adulti che trasportano fascine. Tutto serve del riso, nulla va sprecato: la paglia per i tetti, la pula per cuocere i mattoni fatti a mano lavoro a catena; nelle risaie si raccoglie, ai lati della strada si batte il riso. Più avanti vendono i mattoni, tutto il lavoro di questa gente lo vedi “frutto della terra e del lavoro dell’uomo” si può ben dire. Noi in Europa non vediamo tutto questo, abbiamo il prodotto nei supermercati già finito, non vediamo la fatica manuale di tanti uomini sfruttati, pagati niente che sudano per tirar fuori i frutti della terra per poter sopravvivere. Per me è tutto nuovo, è tutto da scoprire. Dovevo arrivare a 60 anni per vedere come si vive di niente, ma di tutto. Più avanti sopra un ponte, bimbi che giocano con una ruota di bicicletta, non è un pallone, non è un giocattolo, ma la ruota; con essa ci si esprime, è un tutt’uno con il bambino, la fa ruzzolare, roteare, corre a riprenderla, la passa ad altri compagni, è gioia. Un ragazzo cammina in equilibrio sulla balaustra di un ponte, forse l’unica perché i ponti qui non hanno protezioni laterali. Passiamo oltre, mercato ovunque o direttamente per terra o su bancarelle improvvisate su 4 tavole e sopra del pesce di fiume, o pezzi di zebù conditi con mosche e papaya, mango, noccioline. C’è vita, vita nelle strade, tutto è vita. Più avanti ci fermiamo a vedere che anziché battuto a mano, in una pietra, o sbattuto a terra, il riso passa dentro a una macchina che lo separa dalla pula. Il riso fatto cadere da un imbuto superiore passa in rulli meccanici e viene fuori pulito. Intanto per strada sta passando un carretto carico di mattoni trainato da 2 zebù legati insieme da un palo di legno, questi animali vengono adoperati per il trasporto e per il lavoro dei campi. Arriviamo in un altro villaggio, i bimbi ci aspettano sopra a un poggiolo, sono curiosi di vedere come sono fatti questi bianchi, distribuisco caramelle e faccio delle foto e anche i grandi sono contenti di esser fotografati, quando faccio vedere la foto sono meravigliati e ci stanno tutti attorno, ci circondano, ci coronano, ci accompagnano passo dopo passo. Ci sentiamo accolti da persone sconosciute anche se nel cuore mi sembra di conoscerle da sempre e di averle ritrovate. E’ il mondo dei semplici, dei genuini, è il mondo di   espressioni vere, naturali, tutto un altro modo di concepire la vita e di vivere. In questo villaggio vive il padre di Haja e qui P. Giangi ha sfruttato una sorgente d’acqua per portarla in un grande serbatoio che alimentava diverse fontanelle, ma purtroppo siamo andati a verificare che, per mancanza di manutenzione, l’acqua arriva soltanto a due delle 10 fontanelle. Certo queste persone devono cambiare mentalità, hanno il culto degli zebù e stanno tutto il giorno a custodirli con sacra dedizione e non capiscono che l’acqua è molto più importante. Preferiscono fare km per prendere l’acqua nei rigagnoli piuttosto che fare un po’ di manutenzione. Abbiamo partecipato ad una riunione di tutto il villaggio per questo problema e abbiamo detto che possiamo aiutarli se loro dimostrano buona volontà a fare la loro parte. Sono molto poveri e c’è tanta siccità e ce ne sarà sempre di più. Durante la riunione molti stavano a capo chino per la vergogna mentre padre Giangi li sgridava per la loro negligenza, puntualizzando che quell’acquedotto era stato costruito con il denaro di genitori che avevano perso un figlio in un incidente stradale. Hanno promesso che eleggeranno un nuovo comitato per la gestione dell’acquedotto e faranno un fondo cassa per la manutenzione. Quindi siamo ritornati a Fianarantsoa.

22 gennaio domenica. 

Siamo tornati alla casa famiglia, la moglie di Haja è la responsabile. E’ stata fondata nel 2004 e allora dei bambini se ne occupava la mamma di Haja. I ragazzi più grandi fanno da animatori. Si alzano alle 5 del mattino perché la scuola inizia alle 7 e devono fare tanti km per arrivarci, tornano alle 12 e alle 14,30 ripartono per rientrare alle 18. E’ domenica, le ragazze puliscono i cetrioli per il pranzo, anche per noi, io mi unisco a loro e sono felici, scatto qualche foto, inizio a cantare “Se sei felice” e loro..meraviglia, la sanno e cantano con me, poi la ricantano in malgascio e fanno di tutto per insegnarmi le parole ma ahimè è una lingua complessa. Stanno al gioco, basta niente e fanno festa con un bel balletto. I ragazzi della casa famiglia vengono presi dalle campagne sperdute dove hanno meno di niente.

Ora tutti alla Messa. Al 2° piano c’è una grande stanza e lì la liturgia preceduta dalla benedizione per i ragazzi che devono dare l’esame di maturità. Si usa molto benedire le persone e anche noi quattro abbiamo benedetto uno a uno questi ragazzi aspergendoli con un ramoscello di foglie verdi e acqua benedetta. La S. Messa è stata una vera festa con canti, balli, preghiere spontanee per noi, felici di averci con loro. Dopo la Messa siamo andati a trovare una educatrice che stava male. Era nella sua cameretta e ci ha raccontato per più di un’ora che le girava la testa e che era molto triste e malata perché le era morta una zia. In questo paese c’è la cultura del dialogo e dell’ascolto, ma la comunicazione avviene anche con uno sguardo, un gesto, una espressione, anche con il semplice silenzio che è condivisione.

Dopo, tutti a pranzo. Ci hanno dato il posto d’onore su un tavolo apparecchiato con una bella tovaglia bianca, la preghiera comunitaria e riso con foglie di manioca, per frutta uva e pesche. Durante il pranzo padre Giangi chiede ai ragazzi che finiscono la maturità quale progetto di vita hanno. Molti vorrebbero continuare gli studi, ma dicono che i genitori sono poveri.. e si mettono seduti comunque sorridendo… è silenzio di condivisione.

23 gennaio lunedì.

Tutto il giorno alla casa famiglia. Silverio e Ugo devono aggiustare le inferiate delle finestre, i tubi delle grondaie, sostituire i vetri rotti, riparare il ping pong, ecc… Sandra e io abbiamo aggiustato le carte geografiche, e pulito tutte le camere dei ragazzi. Troviamo per fortuna dentro a un baule dei panni verdi donati da un ospedale italiano e li usiamo per pulire per terra. E’ mattina e la casa non risuona dell’allegro vociare dei ragazzi perché sono a scuola, ma qualcuno c’è. Cominciamo a pulire e sbucano fuori gli animatori pronti ad aiutarci. E’ il momento di passare lo straccio ma..non c’è acqua, in bagno c’è un solo recipiente, per le urgenze. Ne prendo pochissima, diciamo quella di 5 bicchieri, che roba..che bene prezioso l’acqua. Mi accorgo, passando per le camere che molti di loro in fondo al letto a castello ne hanno un po’ nascosta dentro a una bottiglia di plastica, acqua sporca ma preziosa perché altra non ce n’è. Non mi azzardo a prenderla, non so come fare per pulire questo pavimento. Il tempo passa in fretta, è mezzogiorno arrivano i ragazzi e quando ci vedono uno alla volta vengono a salutarci “salama” e non ciao ciao (vuol dire quaglia) e ridono. Ci fanno festa e subito si mettono al lavoro, ci aiutano a pulire i vetri e poi apparecchiano. Il pranzo è pronto: riso per tutti, riso e sorriso con foglie lesse di manioca scondito e senza sale. Dopo pranzo mentre Silverio e Ugo aggiustano le finestre, io cerco di pulire il biliardino veramente sudicio ma non sono sola; alcune ragazzine fanno a gara per avere uno di quei bellissimi panni verdi tra le mani. Poi via, ritornano a scuola e noi con l’educatrice ci mettiamo a pulire la manioca per la cena. La cucina è un forno a legna alimentata da legni di eucalipto. Sopra c’è una pentola pesantissima di ferro dove bolle la manioca. Silverio e Ugo stanno mettendo un campanello nuovo per la sveglia del mattino che fa un rumore assordante. Tornati da scuola i ragazzi ci trovano ancona lì e sono felici “salama” “salama” e mi insegnano a pulire il riso dalla pula e dalle sporcizie rimaste. Ci provo anch’io e sono felici di avermi lì seduta accanto a loro a fare lo stesso lavoro, mi guardano e sorridono.. sono una di loro, hanno capito  che

Siamo qui per loro ma ancora prima sono loro per noi.            

24 gennaio martedì. Visita alla foresta pluviale di Ranomafana.

La guida ci indica subito un’erba particolare che appena la tocchi abbassa le foglie, ci sono liane, una foresta intricatissima, alberi dall’alto fusto che lasciano intravedere tra le foglie l’azzurro del cielo limpido. Mi fermo ad osservare una grande ragnatela tenuta con cura da un signor ragno che lì in mezzo ne va fiero e, lassù in alto i lemuri dal muso rosso..hanno delle lunghe code e sembrano scimmie. Stanno in gruppi di famiglie e balzano da un ramo all’altro, si riposano appollaiati sugli alberi con le lunghe code che penzolano giù. Sono proprio curiosi. Poi la guida prende tra le mani un serpentello e ci gioca, anche Ugo lo prende in mano, io a una certa distanza guardo; di seguito ci inoltriamo nella fitta vegetazione scavalcando radici, districandoci tra le liane per osservare da vicino qualche famiglia di lemuri. La natura ci accoglie e sfodera al sole tutti i riflessi di verde possibili e immaginabili; che spettacolo, rimango incantata a vedere con gli occhi e a sentire ad occhi chiusi il canto assordante delle cicale tra l’intreccio degli alberi e il gorgoglio del torrente su un letto di sfavillanti rocce. E’ un’immersione totale, stiamo bene, siamo anche noi come i lemuri “mora mora” felici di stare lì.Haja, il nostro fedele amico e guida, ci sorride e ci accompagna a mangiare un boccone in una locanda a prezzi stracciati. Oggi fagioli e zebù. Un ragazzo si avvicina, vende delle spezie, ma ci sorride soltanto, non chiede, chissà quanti km a piedi avrà fatto ma è lì per tutto il tempo del nostro pranzo seduto sulle scale con al collo 2 corde che sostengono una tavola piena di spezie. Compro 3 bustine di cherry poi via…si riparte, oggi è giorno di relax e  Haja vuole portarci alle terme naturali, un parco da favola: un ponticello di legno, sotto zebù che si tuffano in acqua per rinfrescarsi un po’, un ragazzo porta sulle spalle un grande bastone con 2 caschi di banane, dei bambini sguazzano felici in mezzo alla poca acqua melmosa, Haja ci dice che cercano gamberi d’acqua dolce o pesci; che cosa strana, mai visto,ma tutto rientra nel gioco e nello spettacolo che questa terra vergine ci offre: fiori gialli, banani, sole..ma le terme sono chiuse proprio oggi c’è il ricambio dell’acqua. Haja è molto dispiaciuto; ci ha detto che lui una volta all’anno porta qui la sua famiglia. Fotografo piante e bacche autoctone che esistono solo qui.

Un ragazzo solleva in alto un filo con attaccati tutti i pesci che è riuscito a pescare, è fiero del suo bottino, potrà mangiare. Mi avvicino a un bimbo sporco all’inverosimile che mangia con gusto su una ciotola di riso, mentre la sorellina seduta per terra si gratta un piede e mi sorride, capite, mi sorride; non ha niente, ma ha tutto, il suo sorriso è tutto. Lì su una tavola ci sono delle banane a seccare mentre io mimo una venditrice locale seduta sotto una capanna, Silverio mi sorride contento. Facciamo la strada di ritorno ma ci dobbiamo fermare perché padre Giangi ha telefonato a Haja e gli ha chiesto di comperare dei litchi da piantare poi a Ioshy. Ci fermiamo e mentre Haja contratta l’acquisto osserviamo persone che poco più in là battono il riso e ci salutano. Ci fermiamo ad ammirare una bella cascata spumeggiante e poi rari campi di risaie verdeggianti. La giornata si conclude al nostro albergo di Fianarantsoa; abbiamo comprato un ananas (pagato 1.000 ariari cioè 33 centesimi di euro) e ce lo mangeremo avidamente perché qui la frutta è speciale, sa di cielo, di terra di sole.

25 gennaio mercoledì.

Oggi andiamo alla casa famiglia a lavorare, prima di andare acquistiamo 60 kg di zucchero, il riso e i detersivi per pulire oltre alle saponette, bagnoschiuma, caramelle da lasciare ai ragazzi. Il giorno precedente mi sono accorta dello stato pietoso dei bagni e questa mattina li voglio pulire mentre Silverio e Ugo finiscono di aggiustare i canali pluviali e altri lavoretti. Sandra pulisce i vetri. Mi appresto con tanta buona volontà a pulire ma…è un’impresa.. “come farò da sola”…penso. Mi giro, vicino a me c’è un ragazzino che con lo straccio in mano mi guarda, aspetta ordini, mi vuole aiutare. Subito gli do i guanti e iniziamo. Ogni tanto ci fermiamo, ci guardiamo sudati e affaticati, alla fine siamo contenti pensando agli amici che, tornando da scuola, troveranno i bagni puliti.   “Io mi chiamo Maria, tu come ti chiami?”  Io Angel. Dai miei occhi scendono due lacrime di commozione.

Come l’altro giorno i ragazzi tornano da scuola e ci salutano felici, il nostro lavoro è finito e non ci fermeremo a pranzo, ma loro non lo sanno. Vado in cucina e vedo che stanno preparando delle patate fritte, sono poche, una cade a terra e in un attimo è sparita, ma per chi sono queste patate? Per noi? Ci salutano con tristezza, sembra che non ci possiamo staccare, non è un addio è un “veloma” un arrivederci. Li fotografo da lontano mentre Haja suona il clacson. Ho! sono rimasta solo io, gli altri sono già tutti in macchina devo affrettarmi: “arrivo, arrivo”. Oggi pomeriggio siamo andati alla fabbrica del te. Sono con noi i tre bimbi di Haja. Per la strada incontriamo uomini con sulle spalle tronchi da vendere per impalcature. Arriviamo alla fabbrica dove le foglie del te vengono appese dentro a delle reti e trasportate sopra a dei tavoli,  qui degli operai le svuotano e vengono essiccate per togliere il 30% di umidità mediante delle ventole , poi il te viene frantumato, passato al forno nell’essiccatoio quindi quello nero viene lasciato fermentare e per questo motivo contiene teina,quello  verde invece proviene dalla stessa pianta ma non viene  fermentato perciò è migliore perché non contiene teina. Dopo la fermentazione il te nero viene selezionato e passato in diversi rulli, passa, si frantuma e diventa più o meno grosso e più raffinato, quello più fino è più forte; ci fanno vedere 5 formati diversi. Il te pronto viene venduto nei mercati europei. Fuori mi fermo a fotografare una palma particolare a forma di ventaglio che si trova solo in quest’isola.

Passiamo per villaggi e la strada è tutto, è casa, è negozio, è gioco, è lavoro.

Mi sorprendo ancora una volta ad osservare il lavoro delle pietre frantumate col martello, tutto lavoro di braccia per fare sassi da vendere, e la terra rossa risplende in questo stupendo tramontar del sole, ci fermiamo a comprare un po’ di banane e due ragazze timide ci presentano la loro frutta da vendere, 7/8 banane, se pur piccole ma squisite, neanche 10 centesimi e sono felici che abbiamo comperato da loro, ci sorridono, un sorriso semplice, immediato, vero.

26 gennaio giovedì. Ritorniamo a Ioshy.

Sui campi persone che piantano il riso tra la melma, via vai di gente, bimbi che vanno a scuola, un formicaio laborioso di buon mattino perché alle 7 già sono a scuola. Ci fermiamo a visitare la fabbrica della carta. La pianta si chiama Avoha e viene fatta essiccare e cuocere finché diventa gommosa, viene poi battuta e diventa come una palla di pongo appiccicosa che va stesa su lastre larghe di cemento, diluita con acqua e mescolata con il cotone. Quindi l’acqua viene tolta da un canaletto e sopra vengono messi dei fiori freschi, sopra ai fiori un altro strato di questo impasto, il tutto va essiccato al sole per poi essere tagliato in fogli e venduto per album, cartoline, porta foto ecc.. tutto questo a mano, mani laboriose di gente artigiana. Al negozio ho  comperato un portafoto e un quadretto. Nel giardino antistante buganvillee e altri fiori esotici si affacciano al sole e il cielo azzurro da sfondo valorizza i colori caldi, una pianta espone al cielo le sue foglie e io lì, contemplo, è tutto luce, è tutto calore, è tutto vita. Si riparte per il parco di Anja, qui rimaniamo sorpresi perché ci vivono tante famiglie di lemuri Kata: più belli, più grandi, e molto vicini. Non hanno paura e sembra che si mettono in posa per essere fotografati, noi però in silenzio, con un profondo rispetto nei loro confronti, fanno tenerezza, incrocio gli occhi di un lemure che sensazione….mi batte il cuore, con le zampette prendono i rami portando le bacche alla bocca, sembrano le nostre mani, poi d’un tratto balzano da un ramo all’altro ora qui, ora la. Che spettacolo di vita, la vita tra gli alberi. Ecco altri lemuri sdraiati su una pietra con i loro musetti bianchi, gli occhi e il naso neri e il corpo bianco e nocciolino e la lunga coda a strisce verticali bianche e nere “lemuri juventini” dice Silverio, stanno lì seduti sugli alberi.  E’ l’ora della siesta.

Più avanti un grosso geco e un albero con delle radici esterne avvinghiate alla roccia che formano come un dipinto d’autore. Un serpentello verde e bianco ci passa accanto, la guida ci fa notare anche due insetti autoctoni e un grosso camaleonte che cammina lentamente sul ramo di un albero, mi sforzo di osservarlo perché, devo dire la verità poverino, mi fa un po’ ribrezzo. Poi via verso Ioshy, passiamo per villaggi e villaggi, lungo le strade gran vita, gran traffico ma non di auto ma di gente. Arriviamo a Ioshy, alla base Fifaliana. E’ stata costruita 2 anni fa; Padre Giangi ha messo questo nome per ricordare l’enciclica di papa Francesco: “Amoris laetitiae”. I tramonti sono indimenticabili, costellazioni e stelle, stelle, siamo al tropico del capricorno e il cielo è limpido non ci sono luci artificiali, manca l’elettricità, si sta al lume di candela e della luna. Si va a dormire presto alle 20 e ci si sveglia alle 4. Al risveglio odore intenso di legna bruciata che ti chiude le narici e la gola, odore dolciastro di manioca che Lidia ha già messo nella pentola di ferro a far cuocere prima di recarsi al lavoro. Il marito sta fuori tutto il giorno a vendere uova e la sera quando rientra tiene la bimba in braccio, la mette a sedere nel marciapiede con vicino il gatto che le fa da guardia se si dovesse avvicinare qualche topolino o serpentello.

27 gennaio venerdì.

Al mattino tutti in jeep verso il profondo sud a ritrovare il villaggio dei Bara una delle 18 etnie presenti nel Madagascar. Padre Giangi è vissuto in quest’isola per 35 anni e i primi anni andava con la jeep a cercare villaggi e persone di cui nessuno conosceva l’esistenza e che vivevano vicino a corsi d’acqua. Ancora esistono persone che non sono censite e che non sanno quanti anni hanno e anche bambini, tantissimi non scolarizzati che per la società sono inesistenti. Così accade per questo villaggio dei Bara sperduto nella steppa. Abbiamo percorso strade sterrate con solchi profondi e poi niente più strada, campi, più volte siamo tornati indietro fino a quando padre Giangi ha riconosciuto un grande albero, punto di riferimento. Questo albero è sacro per i Bara, qui il capo villaggio, il più anziano, benedice i giovani che vogliono prendere nuove strade. Ci facciamo largo tra una mandria di zebù che pascolano tranquilli finché vediamo lontano delle capanne, ci siamo. Un nuvolo di bimbi fanno cucù timorosi e poi fuggono, siamo troppo diversi “i vasa” non hanno mai visto un bianco, ma la catechista ci da il benvenuto. Padre Giangi è stato per diversi anni in questo villaggio e ha lasciato questa signora allora bambina che tutti i giorni fa pregare la gente. E’ bastato poco, benedette caramelle, conquista è fatta, balli e canti, è gioia. Tutto il Villaggio è in festa attorno a noi. Mi sono fermata ad ammirare dei bimbi tutti intenti a guardare una nidiata di 3 uccellini appena nati, tenuti con cura dentro un cestino di giunco, è un quadretto unico, ammiro in silenzio. Accolti in casa dal capo villaggio, seduti su stuoie, abbiamo  assaporato mosche e riso, acqua di riso e gallina. Loro cuociono il riso nell’acqua senza mai girarlo per cui alla fine si crea attorno una crosta di riso bruciato. Tolto il riso rimettono l’acqua e la fanno bollire e viene fuori un’acqua di riso colorata (del bruciato laterale) che sa di orzo e la servono bollente, questa accompagna il pranzo. Le donne entrano in ginocchio e ci servono il cibo e escono sempre in ginocchio senza voltarci le spalle.

Padre Giangi intona la preghiera iniziale e,… buon appetito. Dopo pranzo usciamo dalla porta e..tutti attorno…ma sì, lascio andare la bambina che è in me e comincio a cantare la danza del serpente, vogliono essere coinvolti, pendono dalle nostre labbra, aspettano da noi non so cosa, ma senz’altro desiderano qualcosa pur di potersi divertire insieme a noi.

Sono veramente stupendi, genuini, tutto un altro modo di concepire la vita, un proverbio malgascio dice: “anche se abbiamo una cavalletta, la dividiamo in due pur di condividere un po’ di companatico insieme”. Ma perché siamo venuti qui, in questo villaggio sperduto? Il motivo è stato un incontro a Fianarantsoa di P. Giangi con una ragazza di questo posto che studia all’università; lo ha informato che la scuola che lui aveva costruito 13 anni prima non ha più il tetto e non è più praticabile, quindi i bimbi non vanno a scuola.   Ecco perché siamo qui dove ci hanno accompagnato (tutto il villaggio in processione dietro di noi) a vedere i resti della scuola. Certo, con un po’di buona volontà il tetto lo potevano rifare no?  Ma come si fa a cambiare la testa? Che rabbia. Alla fine abbiamo dato un contributo per ricostruire il tetto e ci hanno promesso che lo faranno, anzi ci hanno invitato l’anno prossimo per l’inaugurazione. Non c’è televisione, né cinema, né niente, solo natura, ma oggi siamo stati il vero cinema per loro, tutti ci seguivano e volevano farci partecipi dei loro lavori manuali, di corsa tutti in fila per i campi fino ad un grande spazio nel prato dove ci hanno fatto vedere come si pulisce il riso dalla pula battendo con dei tronchi di legno dentro a dei mortai di pietra e tutto è lavoro in festa. Ci hanno fatto vedere come lavorano le stuoie intrecciando giunchi e livellandoli con le mascelle degli zebù a mo’ di pettine (i denti) e poi… sorpresa: al momento di partire ci hanno offerto dei doni: una stuoia e una ciotola di giunco e tutti attorno al fuoristrada, non ci lasciavano partire, con i loro grandi occhi puntati su di noi in attesa sempre di un nostro cenno, incredibile, che grande emozione ho provato. In macchina, nel sedile di dietro le mosche mi facevano corona tutte lì, e con me sono salite due ragazze bara che hanno approfittato del mezzo per lasciare il villaggio e andare a studiare a Fianarantsoa  all’università. Una di loro ha detto che vuole fare la giudice per difendere la sua gente. Torniamo alla casa base e anche questa sera abbiamo 4 ospiti, cucineremo con niente, altro che in Italia, ma alla fine a tavola c’è sempre tutto. Gli gnocchi di zucca presa dall’ orto, cucinati con la ricetta di Sandra, la papaia del giardino, il parmigiano portato dall’Italia e i cetrioli conditi con olio italiano.

 28 gennaio sabato.

Giornata di relax, gli uomini lavorano spostando tavole e sistemando le cose nel container. Sandra e io sgusciamo i litchi e li mettiamo al sole, facciamo il bucato che si asciuga subito al sole caldo di 40°, è luce, è una vita semplice, campestre. Poi tutti al mercato di Ioshy.

Fotografo una vecchietta che sta sempre lì seduta su quello scalino, una donna che vende carbone mi guarda e mi sorride, per la strada si vive, è l’ora di pranzo e si cucina con i fornelletti allineati pieni di carbonella, sopra pentole pesanti di ferro, dentro manioca o riso. Osservo un ragazzino che per proteggere il fratellino dai raggi cocenti del sole lo ha messo sopra ad una stuoia sotto a un camion fermo, all’ombra, ma al primo pianto con tanta tenerezza lo ha preso e lo ha coccolato tra le braccia..che emozione! Qui c’è molto il senso della famiglia, non si accettano adozioni internazionali, solo all’interno dell’isola rossa e in casi particolari perché le famiglie sono allargate in piccoli clan.

E’ veramente caldo non si resiste al sole, fotografo un bimbo che mi guarda da dentro uno scatolone lì per la strada, il padre sdraiato accanto.

Prendiamo la strada di casa e Haja scende per aiutare un poveretto che non ce la fa a spostare un carretto pieno di masserizie, per noi mondezza, per lui importantissime. Finalmente vediamo un baobab, quelli grandi sono troppo lontani e lo scopo del nostro viaggio non è turistico ma di servizio perciò ci accontentiamo di due piccoli ma bellissimi baobab che ci sono vicino casa davanti alla chiesa di S. Vincenzo de Paoli. Hanno un fascino particolare  sia per la corteccia che per le fronde e le foglie, sembrano usciti da una favola. Alla sera sempre ospiti a cena, questa sera è solo un fabbro che deve costruire una carretta, ci dice che è felice di essere a tavola con noi. La giornata si conclude con delle foto ricordo. Haja indossa la camicia di Giacomo che gli abbiamo regalato. La serata è incantata, il cielo azzurro, un tramonto da sogno.

29 gennaio domenica.

Tutti da René a Andoharanomaitso. S. Messa con gli operai e pranzo. Per strada ci fermiamo a vedere il livello dell’acqua della diga, c’è tanta siccità non è piovuto, ma per fortuna il livello non si è abbassato perché c’è una piccola vena che ha alimentato il bacino. Arrivati, René, sua madre e tutti gli operai ci hanno accolto. Quando padre Giangi ha iniziato la sua missione Renè è stato il primo operaio che ha incontrato e lo ha accompagnato nel suo grande progetto; è il suo uomo di fiducia, responsabile dell’allevamento. Qui a Andoharanomaitso sta costruendo un edificio di 3 piani. C’è un grande appezzamento di terra dove coltivano mais, manioca, riso e ha assunto degli operai stagionali. Padre Giangi ha celebrato la Messa ed è stato bello condividere la preghiera con questi giovani che hanno lasciato moglie e figli a 200/300 km di distanza per poter guadagnare qualcosa per vivere. Che raccoglimento, che espressione del cuore, ognuno di loro si è presentato e ha detto una preghiera, hanno anche ringraziato il Signore per la nostra presenza e ci hanno allietato con canti malgasci natalizi uno dei quali diceva che la Madonna accudiva Gesù, Giuseppe accudiva l’asino e il bue, canzoni non mielate, ma frutto della loro concreta esperienza di vita dura. Insomma questa Messa, celebrata il giorno prima della nostra partenza dentro questo palazzo in costruzione, attraverso la luce filtrata dall’alto tra gli architravi, ha aperto il cuore verso un futuro di speranza per questo popolo in cammino, in comunione profonda tra noi invocando lo Spirito che illumini tutti per essere un cuor solo. Dopo la Messa ci hanno dedicato canti a ritmo malgascio a diverse voci; e poi il pranzo, riso, foglie di manioca in brodo e carne, per frutta papaya dolcissima.

Quel giorno dovevamo andare a portare maglie, caramelle, saponi a Giuseppe per la sua numerosa famiglia; eravamo già andati a trovarlo ma  desideravamo ritornare perché ci aveva colpito lo stato misero e selvaggio in cui viveva. Padre Giangi mi dice: “Maria volevi andare da Giuseppe, Giuseppe è venuto qui, è di sotto”. Sono scesa e Giuseppe si è presentato con uno dei figli più piccoli che mi guardava serio con quegli occhioni grandi e portava, accoccolata tra le braccia, tenuta con tanto amore, una gallina faraona: era il regalo per me. Sono rimasta molto sorpresa, avrei voluto restituirla a quel bimbo che la teneva così stretta, era il bene più prezioso che possedeva, ma padre Giangi mi ha detto che dovevo accettare, Giuseppe l’aveva cacciata per me. Nel pomeriggio terza visita al carcere.  Avevamo promesso alle donne che avremmo portato due secchi per lavare i panni perché quello che avevano era rotto. Appena aperto il cancello 350 persone si sono sedute a terra davanti a noi felici di rivederci. Abbiamo portato due giacche a vento e delle maglie dei nostri figli per i malati che in fila le hanno ricevute. Poi 120 kapoke di riso per i malati e le donne. Che groppo alla gola, che grande commozione si prova entrando in questo carcere, non sei nessuno e loro fanno festa perché ci sei, sei lì con loro. Io Maria, qui ho preso coscienza di me, di essere nient’altro che Maria, una semplice e felice creatura di Dio. Le maglie!  Avrei voluto averne 350 per tutti.

Molti sono a torso nudo, altri indossano stracci sporchi, rotti, e noi se non va alla moda scartiamo…che roba. In mezzo alla melma rossa il pentolone di ferro con a bagno la manioca da ammorbidire per poi cucinarla, il tutto nella catapecchia nera al centro del cortile. Ho dato una corona del rosario ad un ragazzo che la volta precedente me l’aveva chiesta ed è stato felice; mi ero ricordata di lui, era uno dei pochi che non l’aveva ancora. Padre Giangi  le aveva date a tutti e molti le portano al collo. Mi è rimasto nel cuore come la prima volta alla Messa si erano messi i vestiti più belli e avevano chiesto perdono accorato al Signore per i loro peccati dovuti soprattutto a furti di zebù per fame. Ultima sera a casa Fifaliana “letizia” abbiamo con noi René, la moglie Claire Jean Paul, uno dei responsabili dello allevamento. Cuciniamo gnocchi di zucca, per frutta un grosso cocomero i cui semi sono stati portati dall’Italia, lo mangiamo insieme. Prima di cena aiuto Lidia a lavare una catasta di panni di tutta la settimana.

30 gennaio lunedì.

Partenza per Fianarantsoa, abbiamo caricato i bagagli ma la macchina non

Vuol sapere di parti e, mora mora, finalmente in qualche modo alle 12 partiamo; bambini che ci salutano felici, rappresentano tutto il Madagascar. Pernottiamo a Fianarantsoa.

31 gennaio martedì.

Partenza per Antananarivo. Per strada si vende acqua, poi fuori della città

Il verde dei prati, è tutta l’isola rossa nel suo splendore. Arriviamo alla tenue luce del tramonto.

1 febbraio mercoledì.

Antananarivo: aereo ore 1,20. Ore 14 arrivo a Venezia, ritorno a casa.

Ora che abbiamo terminato questo viaggio credo proprio che sia stato voluto dal cielo. Ancora ci domandiamo perché il Signore ci ha voluti laggiù; non lo sappiamo, ma siamo più ricchi perché portiamo nel cuore la sofferenza, le paure, le contraddizioni e le speranze di questo popolo in cammino che sentiamo vicino e che desideriamo aiutare non a sopravvivere ma a vivere.  

 Da sempre ho chiesto al Signore di allargare il mio cuore al mondo intero così che la mia preghiera abbracciasse tutti gli uomini della terra. Mi ha esaudito! Sono andata e porto con me il volto di tutti questi fratelli.

Grazie Padre Giangi che ci hai accompagnati in questa nuova esperienza, per tanti anni hai cercato di educare questa gente a risorgere con le proprie forze. Grazie perché ci hai fatto capire che quello che diamo non è niente di fronte a quello che riceviamo. C’è un’unica strada che percorre il Madagascar da nord a sud, è la strada di uomini in cammino, un popolo in cammino verso la giustizia e l’uguaglianza, ma non sono più soli, fratelli di tutto il mondo camminano al loro fianco.

 Madagascar 12 gennaio – 1 febbraio 2017

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